| Temi ed intenti
 D.
            -Sacco, scritto diretto ed interpretato… è uno spettacolo
            del 1973 rappresentato per la prima volta al Club teatro di Roma. Questa
            del 2006 è una ripresa o piuttosto una riedizione?
 
 R.Caporossi. -Intanto è una riedizione, perché non siamo
          più io e Claudio ad eseguirlo, ma due giovani attori che da
          alcuni anni collaborano con noi ( P. Scansi e A. Sanna ) E' una riedizione
          in quanto lo spettacolo ha una struttura ben precisa per cui gli attori
          si ritrovano a fare quello che facevamo noi. Però, e questo è un
          problema che ci siamo posti fin dall'inizio, non volevamo creare due
          cloni identici a noi, ma ai nuovi attori lasciare tutta la libertà interpretativa…
 Certo
          io e Claudio lo abbiamo ideato pensato e scritto, abbiamo realizzato
          tutti gli oggetti che servono e che sono ancora quelli.
 Gli attori
          di oggi si trovano ad interpretarlo, ma questo scarto tra il fatto
          di esserne noi autori e interpreti e loro attori-interpreti non deve
          pesare sul loro stare in scena, la soluzione… è che hanno
          personalizzato, diciamo, anche la loro presenza.
 In questo senso la considero una riedizione.
 
 
 D. - Periodicamente proponete dei laboratori. Come vengono individuati
            i temi?
 
 R.C. -Non c'è una scelta a priori. Si tratta di una idea che
          per essere realizzata richiede la partecipazione di un gruppo (naturalmente
          c'è un bando, l'invio di un curriculum, una selezione in base
          alla esperienza maturata)
 E poi si tratta di continuare un percorso e sviluppare delle idee che
          sono allineate ad una immagine iniziale.
 Il tema comunque è sempre legato al nostro modo personale di
          pensare il teatro.
 Porto una idea, che ha un disegno nella mia testa - comprensiva dell'inizio
          e della fine - che lascio volutamente aperto per adattarlo alle persone
          con cui lavorerò, secondo le dinamiche del gruppo (come si forma,
          che relazioni si stabiliscono) per poi cercare di captare bene quelle
          che sono le qualità espressive di ogni persona, proprio per
          assecondarle o lasciarle agire in qualche maniera, ma sempre con l'idea
          che è la presenza che conta.
 
 
 D. - Si tende a sviluppare un 'Io corporeo' nei
            suoi prolungamenti in nuove identità…
 
 R. C. -Ora non perché la parola sia di secondo piano che necessariamente
          il lavoro è affidato all'espressione del corpo. C'è una
          tendenza dove il lavoro sul corpo diventa espressivo, ciò a
          cui tendo è far si che le persone siano consapevoli della loro
          collocazione nella scena per poter affermare la loro presenza, la presenza
          come persona non come personaggio.
 Le nostre idee si sviluppano anche da questo.
 
 
 D. -Naturalmente si creano delle relazioni, delle figurazioni spaziali,
            e quindi che relazioni intrattenete con l'arte e la performance
            e con gli altri linguaggi che si muovono lontani dai limiti della rappresentazione.
 
 R. C. -Certo la dimensione teatrale è sempre affermata, ma poi
          all'interno di uno schema che ripropone una consequenzialità teatrale
          ci possono essere dei momenti isolati, tali da essere visti sotto l'aspetto
          di una performance.
 Io non costruisco scene che devono essere identificate attraverso qualcosa
          d'altro. Questo non mi interessa.
 In ogni caso c'è un discorso che deve comunque evolvere.
 Per
          esempio la scena iniziale dei bastoni (piantati dritti in scena.) la
          coltivo da tanto tempo e la immaginavo realizzata come una installazione,
          con tutto lo spazio riempito di bastoni …   un cimitero di bastoni…  ecco
          per me l'azione partiva da qui.
 Tutte le azioni e le scene seguenti sono sviluppi di questa idea iniziale
          come una applicazione a riprendere l'idea mentale di quell'immagine
          che avevo in testa.
 
 E nel momento in cui mi metto a lavorare su di una idea da realizzare,
          mi trovo in modo naturale a dover affermare una dimensione che può valere
          (già da sé) ed esistere per se stessa.
 
 
 D. -Dice un proverbio zen "se qualcuno ti mostra la luna è questa
            che devi guardare, non la mano che la indica" Lo stesso si può affermare
            a proposito del significato che emerge (nel vostro teatro) come essenza
            naturalmente...
 
 R. C. -Si, nel nostro teatro c'è sempre qualcosa che va oltre,
          ma questo riguarda lo spettatore.
 Non mi piace un teatro troppo descrittivo o che sembra suggerire: attenzione!
          dietro questo, c'è qualcosa di diverso…
 Non è così - piuttosto ( l'idea ) è lo spunto
          o l'accenno. Il nostro è un teatro che riduce al minimo le cose
          proprio perché il pubblico possa riempirlo della propria immaginazione
          e fantasia
 
 
 D. -Come avviene la comunicazione nel vostro teatro, avete elaborato
            delle teorie in proposito?
 
 R. C. -No. Forse perché l'esigenza è nell'operatività,
          piuttosto che trovarsi a teorizzare quello che si è realizzato.
 Anche con Claudio fin dall'inizio non c'è mai stata questa esigenza,
          quanto invece dover fare ed operare.
 Pero è naturale che si abbiano delle convinzioni sul proprio
          lavoro, la propria funzione, il senso di ciò che si fa ed il
          senso che uno vorrebbe che il teatro avesse ...
 questo si, anche in virtù dei tanti di lavoro in questo campo.
 
 Può accadere di esprimere dei concetti che possono avere la
          parvenza di una teoria... ma in ogni caso non c'è stato fino
          adesso uno studio sistematico o un tentativo di codificare quello che
          si realizza
 
 
 D. -Il vostro teatro è fatto da " micro-eventi che sono come
            finestre che danno luce al teatro"  quali sono i legami interni,
            vi sono sviluppi per serie molteplici?
 
 R. C. -Rispetto a quello che può essere la mia esperienza, il
          lavoro che viene svolto fin dall'inizio passa attraverso una comunicazione
          continua, un rimbalzo tra me, le idee e fino a quando questa molteplicità di
          situazioni pensate non richiedono il bisogno di essere scritte oppure
          che gli venga data una consequenzialità. Ma in ogni caso non
          ci sono sviluppi per serie, in effetti noi impostiamo quello che poi
          risulta lo spettacolo attorno ad una situazione o ad un oggetto preciso.
          E tutte le idee nascono manipolando e trasformando questo oggetto.
 In questo caso particolare i protagonisti sono gli ombrelli ed i bastoni
          - due oggetti che ho sempre visto come uno l'opposto dell'altro, ho
          voluto utilizzare la stessa forma, lo stesso manico, quasi a ricreare
          una specularità apparente.
 
 In effetti come in altri spettacoli
          qui le idee che vengono e l'immaginazione suscitata portano a pensare
          per sviluppi progressivi. Si tratta di dare una sequenzialità alle
          situazioni che comunque mostrino sempre varie facce in cui questi oggetti
          sono presenti.
 Non è una commedia… è una situazione, con una
          infinità di storie all'interno...con dei flash immediati, delle
          immagini e delle situazioni che si creano e portano con se infinite
          storie e che ne possono produrre altre.
 
 
 D. -In altre occasioni si è trattato di riscriverei l'esistente
            dal principio (aion)…come un valore terapeutico, un metodo per
            sfuggire all'interpretazione, un pretesto…
 
 R.C. -Il nostro teatro nasce sempre da uno stupore, come se gli oggetti
          e le cose che ormai sono di uso quotidiano… non si conoscessero.
          E' come mettersi di fronte con stupore ad un oggetto o ad una situazione
          e quindi provare a farla nascere o ricrearla dal principio del tempo
          e per lo spazio che ne può conseguire.
 Adesso viviamo nell'attuale tempi sempre più immaginari…
 In ' Aion ' (1987) abbiamo ricreato l'attività iniziale di un
          tempo molto più presente, nel senso che faceva parte, il trascorrere
          del tempo, dell'azione (perché era una azione materiale che
          si svolgeva)
 Così lo spettacolo mostrava questo 'tempo reale', quando in
          teatro esiste un tempo immaginario facile da tragittare da una epoca
          all'altra
 Tutti i nostri spettacoli si svolgono in un tempo reale, la costruzione
          di un muro in ' Cottimisti ' (1977) ad esempio, ecco li il pubblico
          era testimone di un’azione eseguita in tempo reale.
 
 
 D. -Cortocicuitare il senso per ricreare uno
            spazio dove effettivamente realizzare l'esistere… per esistere, ma non dall'essere… come
            si dice in un frammento del testo
 
 R. C. -Il testo dice anche:
 - Sotto l'ombrello non sono visto quindi non esisto.
 Accanto al bastone sono visto quindi esisto-
 E' un teorema e questo rispecchia in qualche modo la società di
          oggi, con una critica diretta all'apparire e ai mezzi di comunicazione
          più diffusi ....dove esiste tutto quello che si vede in virtù di
          questo mezzo, mentre tutti gli altri non esistono affatto-
 
 
 D. -Esiste un 'senso implicito' in teatro, da suscitare o da provare?
 
 R.C. -Io tendo a questo. Ma poi mi trovo con persone che fanno uso ancora
          di questi parametri o nella necessità di dover interpretare, o
          chiedersi comunque 'come lo interpreto questo'  Io cerco di far capire
          l'esigenza di entrare in una dimensione dentro la quale non ci si chiede
          il senso di una cosa ...perché si è dentro il senso della
          cosa.
 Quindi non spiegare più! anche la propria interpretazione:
          perché non ci sarà più interpretazione o perché si è dentro
          il senso di quello che si sta facendo.
 Ed è questo che cerco di
          trasmettere alle persone con cui collaboro, ma capisco che non è semplice
          portare a maturazione un pensiero di questo tipo.
 Allora riflettendo su
          quale può essere la strada è chiaro
          che la mediazione diventa: 'come devo interpretare una certa cosa'
          ? perché si trovi la sufficiente preparazione o maturazione
          a lasciarsi andare a questo qualcosa che bisogna acquisire, indipendentemente
          dalle proprie qualità.
 E questo si acquisisce con l'esperienza,
          con l'osservazione, con il proprio pensiero e la propria opinione
          che si ha sulle cose, sulla vita, le relazioni. (applicando quel
          senso critico che ognuno di noi dovrebbe avere)
 
 E' un lavoro continuo.
 Si io penso che il lavoro maggiore sia proprio questo. Che poi le
          tecniche vengono di conseguenza.
             
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